In realtà, questa è una storia di cattivi.
Titolo: Gli incubi di Hazel
Titolo originale: Hazel’s Phantasmagoria
Editore: Newton Compton
Traduttore: Stefania Di Natale
Autore: Leander Deeny
Pagine: 204
Prezzo: Brossura 6,90€
Reperibilità: Sia in libreria che online
Il pranzo in compagnia di Eugenia fu esasperante come al solito. Quel giorno la zia accusò Hazel di essere una «sempliciotta dal naso foruncoloso», dicendole che il mondo sarebbe stato certo un posto migliore, se tutti gli stupidi fossero stati spediti su un’isola deserta, lasciando finalmente in pace le persone intelligenti. Hazel s’immaginò deportata in quella felice, stupenda isola di idioti baciata dal sole, sdraiata sulla spiaggia, mentre intorno a lei tutte quelle persone gentili e sempliciotte inciampavano nelle cose, si davano fuoco da sole e cercavano di ingoiare sabbia. Un vero paradiso.
Dopo viaggi di notte, in furgone, in cui svenivo all’alba come i vampiri; scarico di pacchi sotto la pioggia; divani che rotolano su per le scale; cantine che sembrano segrete; poltergeist che decidono di prendersela con i muri e colori di vernice sbagliati, avevo bisogno di un libro senza troppe pretese, che scorresse veloce, leggero. E in effetti lo è stato. Fin troppo.
Questo romanzo lo ricorderò come quello che mi ha tenuto compagnia i primi giorni nel nuovo antro milanese, dove il divano era diventato l’unica isola/superficie utilizzabile nel caos e quando la mancanza di luce e gas mi hanno resa una trasandata mangiatrice di panini che vede al buio.
Io i primi giorni di trasloco
L’INCIPIT
L’incipit serve ad invogliare il lettore a leggere il romanzo, quindi spesso è costituito da frasi accattivanti che abbracciano e stuzzicano il maggior numero di persone. Questo è diverso. Per molti, un incipit come questo può sembrare inquietante, di cattivo gusto.
Buona sera.
Probabilmente tua madre merita di morire.
Inutile dire che io l’ho adorato.
Sì, certo: tu vuoi bene alla tua mamma. Ma sei sicura di conoscerla bene? La conosci solo dal giorno in cui sei nata… mentre lei esisteva già da molti anni prima. Pensaci: anni e anni! Scommetto cento sterline che in quei lunghi, noiosissimi e solitari anni trascorsi prima che tu nascessi, lei ha fatto cose delle quali non ti ha mai detto nulla.
Guardala negli occhi e osserva le sue reazioni quando le dirai le seguenti parole:
Pettegolezzo! Manipolazione! Minaccia! Inganno! Peculato! Incendio doloso! Frode! Rapina!
Furto di bestiame! Satanismo!
Prova a urlargliele a caso durante la cena, poi osserva come reagisce: ha un’aria imbarazzata? Oppure sembra voler nascondere qualcosa? Scommetto che sul suo volto è apparsa una strana espressione. Ovvio, si sente in colpa.
Oh! Non credi che tua madre possa essersi macchiata del reato di furto di bestiame? Be’… già soltanto questo mi fa capire quanto tu possa essere ingenua. Ma sono certa che quando avrai l’età di tua madre ti sarai a tua volta macchiata delle più turpi menzogne, tradimenti e furti di animali. Succede a tutti!
Dunque, anche se vuoi bene alla tua mamma, ricorda che anche lei è come le altre persone grandi, ovvero pronta per lo sterminio.
Su, smettila di piangere, adesso.
Già leggendo fin qui, ero gasatissima. Adoro gli argomenti strani, scomodi, che spiazzano e mettono tutto in discussione. L’autore è stato bravo a creare un incipit che attirasse le persone giuste, quelle che avrebbero potuto apprezzare una scomoda favola dark.
Ora, chiunque sarà il responsabile della morte di tua madre, avrà un compito assai difficile da svolgere. L’omicidio è una cosa seria. Ci vogliono mesi di preparazione. Attrezzature speciali. E altamente illegale.
Ma la cosa più importante è che, una volta commesso, non si torna più indietro. Purtroppo devo dire che essere un assassino non è affatto divertente. Tanto per cominciare, è faticoso e complicato: seppellire un corpo nel bel mezzo della nottata è un lavoro sporco e sfiancante. Poi c’è la faccenda dell’arresto, che generalmente prevede che il poliziotto in questione ti torca il braccio dietro la schiena e ti sbatta la faccia sullo sportello della sua auto. Dopo viene il processo, durante il quale si è costretti a rispondere a domande difficilissime e a sorbirsi gli insulti della gente. E alla fine si va in prigione, di gran lunga il peggior posto del mondo.
Così, anche se tua madre merita di morire, gli svantaggi che comporterebbe ammazzarla sono enormi.
Ma per quanto enormi siano questi svantaggi, non bastano a scoraggiare tutti. Le persone che ammazzano altre persone sono tantissime. Lo hanno sempre fatto, per tutta la storia dell’umanità. E lo fanno ancora oggi, ogni singolo giorno.
Questo libro dice perché.Eugenia, Lady Pequierde
LA STORIA
Una volta finito di leggere l’incipit, mi sono sfregata le mani, convinta di stare per leggere un romanzo sugli stessi toni accattivanti, dalla trama intelligente e di gran gusto…
Sembra che l’autore si sia impegnato per mesi a scrivere l’incipit, per poi scrivere tutto il resto in un paio di giorni.
La trama perde acqua da molte parti, non ha basi solide ed è piena di scelte forzate.
I GENITORI DI HAZEL COME LE TRE SCIMMIETTE
Questi genitori sono i più inutili al mondo, perché l’autore li ha ridotti a dei corrieri sordi, muti e ciechi: Arrivano, scaricano la bambina dalla zia, non notano né fanno domande sulle condizioni precarie e da denuncia della casa, non notano che Zia Eugenia non sta affatto bene psicologicamente, accusano Hazel di inventarsi tutto quello che invece è chiaramente visibile, se ne vanno in vacanza e non chiamano mai, altrimenti per l’autore sarebbe stato impossibile scrivere la “scena del telefono”.
«Non c’è di che. Ora io e tuo padre dobbiamo proprio andare, cara, per evitare la folla, perciò devo salutarti. Perché non richiami stasera? Potremmo fare una lunga chiacchierata tranquilla».
Hazel strinse il pugno, frustrata.
«Non posso chiamarti stasera, mamma».
La mamma sembrò non capire.
«Per quale ragione, tesoro?»
«Perché la zia Eugenia non me lo permette! Non sono nemmeno autorizzata a chiamarti adesso… Ho dovuto rubare il telefono di nascosto!».
Hazel udì un profondo sospiro dall’altro capo.
«Tesoro, mi fa veramente arrabbiare che tu stia ancora inventando fandonie su mia sorella…».
«…ma…».
«Niente ma, signorina! Non ne posso più di questa storia! Non potresti almeno cercare di fartela piacere, questa tua zia?».
Hazel aveva ripreso a piangere. Perché la mamma non voleva crederle?
«Mamma, ti prego, è la verità…».
«Smettila! Davvero, Hazel, certe volte penso che…».
Ma Hazel non scoprì mai cosa pensava la mamma, perché la linea si interruppe all’improvviso. Si sentì invadere dal panico. Quando riappese il ricevitore, si voltò per guardarsi alle spalle.
Era Eugenia.
Quindi ti sei ricordata adesso di avere una figlia? Sei impegnata al tal punto in vacanza che deve essere tua figlia di dieci anni a chiamarti, dopo giorni? E perché mai dovrebbe inventarsi una storia del genere, visto che è stata lei a volerti chiamare?
Adesso ci sarà qualche intellettuale che dirà cose del tipo: (Leggetela con voce acuta) “Ma non vedi? Questa è chiaramente una critica alla società odierna!! Di come i genitori spesso non si curano dei figli, non li ascoltano e…”
Sì, peccato che se solo i genitori fossero stati resi anche vagamente credibili, la trama si sarebbe risolta in due pagine.
È SPARITO? CON CALMA, NON C’È FRETTA.
Parlando in generale, per non fare spoiler, se un bambino sparisce, voi persone con un cervello cosa fate? Lo andate a cercare o chiamate la polizia. E invece no! Qui non si fa mica così.
PROCURARSI OGGETTI RARI MANCO STESSI AL SUPERMERCATO
Qui le normali difficoltà che un bambino troverebbe a procurarsi determinate cose, sono totalmente ignorate. Sembra che davanti a qualsiasi domanda logica da parte del lettore, l’autore si sia tappato le orecchie per poi urlare: “Cosa? Non ti sento! Andiamo avanti…”
Neanche Barbanera è convinto.
IL MESSAGGIO
Abbiamo appurato che la messa in pratica non è proprio delle migliori, ma questo non vuol dire che l’idea non sia buona. Anzi, il messaggio che lascia questo romanzo è molto interessante, e per nulla scontato.
Non è facile fare amicizia. Anche se coloro con cui cerchi di fare amicizia non sono struzzirana o gorillopardi o pitospini, o assassini o pazzi. La gente è complicata, sola, arrabbiata o ansiosa: è così e basta.
Ma devi provarci lo stesso. Per quanto la gente ti possa spaventare, devi decisamente cercare di conoscerla.
Perché i fifoni non piacciono a nessuno.
E adesso di corsa a dormire!
Questo paragrafo racchiude bene ciò che l’autore ha suggerito goffamente per tutto il romanzo: C’è sempre un motivo, per ogni cosa. E bisogna avere il coraggio di provare a scoprirlo. Se una persona si comporta in un certo modo, ha i suoi motivi. E tu puoi scegliere la via più facile e scappare via, oppure no. E quel “Oppure no” può racchiudere sia un misero paragrafo, che un finale completamente diverso.
PERSONAGGI
Dunque, che ne pensate?
Chi era il cattivo di questa storia? Chi il peggiore di tutti? C’è stato qualcuno che potesse definirsi buono?
[…] No?
Be’, penso che abbiate ragione. In realtà questa è una storia di cattivi.
[…] Come dite? Avevano le loro ragioni? Ma tutti hanno le loro ragioni. Tutti hanno buone ragioni per fare qualsiasi cosa.
Questo è un altro concetto chiave che l’autore tiene a sottolineare: I buoni non esistono.
Ogni personaggio è tremendo, e portato all’estremo arriva a dire e fare cose terribili.
HAZEL
La protagonista è infantile, odiosa, irascibile e viziata. Passa la maggior parte della storia a fare la vittima. Non che non ne avesse motivo, ma non ha mai quell’evoluzione che la spinge a farsi forza e a crescere. Pur di vendicarsi, è capace di una crudeltà tremenda.
ESAGERAZIONE TIPICA DEI BAMBINI
E infine, proprio sopra il caminetto, campeggiava il trofeo più spaventoso di tutti: una giraffa. Il collo, un tempo slanciato e aggraziato, era lungo più di un metro e mezzo, anche se c’era da immaginare che quando era ancora attaccato al corpo potesse essere stato anche più lungo. Il manto marrone e dorato era ingrigito dal fumo del camino e gli occhi di vetro fissavano freddamente il nulla.
Hazel immaginò la propria testa staccata, riempita di paglia e appesa al muro. Non le parve una cosa carina.
Ma poi guardò la zia Eugenia, ricordò che sarebbe dovuta rimanere lì con lei per tre settimane e rifletté che forse finire impagliati non era poi il peggiore dei destini.
VIZIATA
«Fantastico! Andiamo a chiederglielo subito». Hazel si diresse verso la porta che dava in salotto.
«Fermati! La mamma non vuole che si entri in questa stanza! Stavo per dirti di aspettare l’ora di cena per uscire di nascosto…».
«Che cosa? Dovremmo rimanere qui ad aspettare giocando a carte senza che nessuno di noi possa vincere e senza smettere mai fino all’ora di cena?»
«Be’… Potremmo giocare a freccette, no?».
Hazel gemette un’altra volta e si buttò sul pavimento, esasperata.
«Non voglio giocare a freccette, voglio giocare a carte!».
Sospirò e rimase sdraiata sul tappeto ammuffito per qualche secondo. Pensò che a quel punto avrebbe preferito starsene seduta a guardar fuori dalla finestra, piuttosto che giocare a freccette con un ragazzino che non conosceva nemmeno le regole di un gioco tanto semplice. Si alzò, andò alla finestra e si sedette, intenzionata a non rivolgere la parola a Isambard fino all’ora di cena.
SCATTI D’IRA INFANTILI E INCONTROLLATI
«Be’, credo che potrei chiedere a tua madre di poter usare il telefono all’ora di cena; giocheremo a carte domani».
Isambard sembrava preoccupato.
«Oh, non penso che sia una buona idea… È… è meglio non chiedere nulla alla mamma, durante la cena. Non so se l’hai notato, ma di sera è un po’ scontrosa. Meglio chiederglielo domani a pranzo».
Hazel cacciò un urlo, corse verso il bersaglio delle freccette, ne estrasse un dardo e lo lanciò mirando alla testa di Isambard. Per fortuna lui si chinò, e il dardo si conficcò nella gamba del tavolo da biliardo.
«ODIO QUESTA CASA! LA ODIO! Cosa significa che tua madre “di sera è un po’ scontrosa”? Lei è sempre scontrosa! Voglio soltanto telefonare alla mia mamma!»
Tuttavia, ha anche dei lati positivi, altrimenti sarebbe impossibile per il lettore apprezzarla almeno un po’.
EMPATIA
«Ragazzina, hai molti amici? Ho sempre pensato che la gente stupida dovesse almeno essere brava a fare amicizia. Un’attività che in qualche modo non è mai stata il mio forte».
A quel punto, Hazel aveva iniziato a piangere. Fare amicizia era probabilmente la cosa che le riusciva di meno al mondo. Fino a quel momento le sue amicizie ammontavano a zero.
Hazel è la classica bambina che non piace a nessuno. Se il suo comportamento sia la causa o la conseguenza non lo sappiamo, perché l’autore non ha approfondito. Ma la sofferenza che questo fatto le reca è facilmente comprensibile, è un dolore universale, in cui sia i lettori bambini che adulti possono identificarsi.
«Ci sentiamo come un paio di inutili sgorbi».
Hazel deglutì. Era così che una volta l’avevano chiamata. Durante il trimestre estivo, a scuola mentre giocava a pallavolo, aveva mancato la palla in maniera particolarmente goffa, e una ragazzina l’aveva chiamata esattamente così. Un inutile sgorbio. Non era bello sentirsi trattata in quel modo.
«Non penso tu sia uno sgorbio… Penso invece che tu sia carino».
Noel distolse lo sguardo dal suo specchio. Era molto tranquillo.
«Davvero? Sono carino?».
Hazel sospirò.
«Sì, sei carino, Noel».
«E IO? SONO CARINO ANCHÌO?»
«Sì che lo sei, Francis».
«OH, GRAZIE!».
«Non c’è di che. Volevo soltanto dirvi quanto siete stati bravi nel vostro lavoro di questi giorni. So che… ehm… non è andata proprio benissimo… ma siete stati entrambi… Sì, insomma, sapete: bravissimi. E mi dispiace se qualche volta vi ho sgridato».
A questo punto, Hazel aveva esaurito le cose da dire. Ci fu un lungo silenzio. Poi Francis si sollevò, saltellò fino a lei e le mise un biscotto nella mano. Sorrise e le si sedette accanto. Noel allora strisciò accanto ai suoi piedi e lì si fermò.
Una strana sensazione di felicità s’impadronì di Hazel, che allungò una mano e accarezzò la testa di Francis.
E rimasero lì, tre sgorbi nel bosco, a mangiar biscotti finché per Hazel non arrivò il momento di rientrare.
ZIA EUGENIA
«E tu chi diavolo sei?», Eugenia aveva detto a Hazel, dimostrando di non essersi mai lontanamente interessata a quella nipote prima di allora.
«Sono Hazie», aveva detto Hazel, presentandosi col diminutivo da bimba piccola, che da allora aveva DECISAMENTE abbandonato.
La mamma di Hazel era intervenuta. «Hazel, cara; devi dire Hazel».
Eugenia aveva proseguito con l’inquisizione. «Bene, e quanti anni hai, ragazzina?»
«Scette». Anche “scette” aveva smesso di dirlo da parecchio tempo, oramai.
«Che cosa ridicola», aveva grugnito Eugenia, senza mostrarsi minimamente impressionata. «Anche Isambard ha sette anni, e basta guardarvi per capire che ha il doppio della tua intelligenza. È un cervellone, per la sua età, e ha già imparato cose che tu non puoi nemmeno immaginare. Non è così, Isambard?».
Per tutta risposta, Isambard s’era limitato a recitare: «Bogotà è la capitale della Colombia», fissando insistentemente il pavimento.
«Molto bene, caro. E tu sai qual è la capitale della Colombia, ragazzina?».
Ad Hazel la domanda era sembrata strana, dal momento che Isambard aveva appena fornito la risposta.
«Bogotà?», azzardò.
Eugenia era rimasta perplessa.
«Be’… Sì, sì, è giusto. Vedo che qualcosina la sai. Ma al di là di ciò, sono sicura che sei una ragazzina irrimediabilmente sciocca».
Lei dovrebbe essere la “vera cattiva” della storia, e l’autore si è assicurato che nessuno riuscisse a prenderla in simpatia nemmeno un po’, rendendo esagerata, crudele e odiosa ogni sua frase e azione.
«Zia Eugenia…».
Quegli occhi fiammeggianti le si puntarono addosso all’improvviso, e Hazel abbassò i propri sui cavoli che aveva nel piatto. «Per te sono Lady Pequierde».
Ma di che diavolo stava parlando? Hazel l’aveva sempre chiamata zia Eugenia. Chi altri se non la nipote avrebbe potuto chiamarla zia Eugenia?
«Non ti farebbe male apprendere un po’ di buone maniere. Quando non si hanno cervello, né amici, né attrattive di sorta, bisognerebbe almeno avere una buona educazione».
Hazel ripensò a quando aveva perso la pazienza con Isambard, in sala giochi. Benché tirargli quel dardo fosse stato senza dubbio sbagliato, era certa che dire a qualcuno che non aveva cervello, né amici, né attrattive di sorta fosse molto peggio. Anche se era vero.
«Le chiedo scusa, Lady Eugenia…».
«Oh, per l’amor del cielo! Perché devi strisciare in questo modo? Zia Eugenia andrà benissimo, non c’è bisogno che mi chiami “Sua Altezza” o roba del genere: non ti servirà certo a renderti migliore ai miei occhi».
Hazel strinse i pugni, adirata. «Ma se hai appena detto…?»
«Sono perfettamente consapevole di quel che ho detto oppure no, Nocciolina. E adesso, se non hai nulla di più intelligente da dire, chiudi quella bocca».
L’approfondimento e l’evoluzione di questo personaggio arrivano molto tardi, al punto che si inizia a considerarla come il classico personaggio senza spessore ma, per i lettori più attenti, l’autore inserisce all’inizio del romanzo una frase, per farci intuire che dietro il suo comportamento ci sia ben altro.
Sentendosi libero di andarsene, Pude uscì fuori dalla stanza, strascicando un po’ i piedi. Eugenia afferrò una fotografia incorniciata che aveva di fronte. La guardò con un misto di rabbia e disperazione, poi la rimise a posto e tornò a dedicarsi al suo tè. Hazel non riuscì a vedere che fotografia fosse, ma sicuramente doveva raffigurare qualcosa che a Eugenia non piaceva affatto.
ISAMBARD
Per una frazione di secondo, Isambard alzò gli occhi dal suo libro. Era un ragazzino basso e magro, con grandi occhi marroni molto tristi e la testa ricoperta da ciocche disordinate di capelli ricci e neri. Indossava un completo nero, camicia bianca, lucide scarpe marroni e un farfallino nero. Accertatosi che nessuno gli stesse chiedendo di rispondere, si immerse di nuovo nella lettura.
«Lui è molto bravo a scuola, sai? E tu sei brava a scuola?», disse Eugenia.
Hazel sospirò. Pensava di esserlo, ma era dura farlo credere anche ai suoi insegnanti.
Lui è il classico personaggio imbranato, dalle profondità nascoste e ricco di sorprese. È facile inquadrare subito la piega che prenderà il suo personaggio e cosa nasconde.
Dondolando le gambe avanti e indietro sotto la sedia, senza sapere assolutamente cosa fare, il cugino Isambard affondò la mano nel sale e se ne mise in bocca un grosso grumo. Dapprima sembrò sorpreso, poi iniziò a sputare in giro.
«Aaagh!… Aagh…. nnnng!».
Hazel sospirò esasperata.
«Per l’amor del cielo… Che stai facendo?».
Gli portò un bicchiere d’acqua e gli tenne la testa mentre beveva. Lui lo tracannò guardandola con gratitudine, sputò e tossì un altro pochino, poi rimase in silenzio. Hazel tornò al suo posto. Isambard era tutto rosso per l’imbarazzo.
«Hazel?»
«Che c’è?»
«…Posso parlarti?»
«Lo stai già facendo».
Isambard la guardò con gli occhi sgranati e mormorò di nuovo fra sé: “Stupido, stupido, stupido”. «Be’… Volevo chiederti scusa».
GLI ANIMALI DI ISAMBARD
Per quanto le sue doti da Dottor Frankenstein improvvisato lo rendano quasi banale, già visto, i suoi animali riescono comunque ad inquietare il lettore.
JILLY E JERRY
Però si muovevano molto goffamente: infatti, mentre due maiali normali e in salute avrebbero avuto otto zampe in due, Jilly e Jerry ne avevano soltanto sette.
Ma non era a Jilly che mancava una zampa, né tentomeno a Jerry. Ne avevano una in comune: la posteriore sinistra di Jilly, o l’anteriore destra di Jerry, a seconda da dove li si guardava. Arrancarono con difficoltà fino alla carota, ne addentarono un’estremità a testa e la spezzarono a metà.
«Santo cielo!», esclamò Hazel. «Non avevo mai visto dei gemelli siamesi, prima d’ora!». Isambard sembrava confuso. «Gemelli siamesi?» «…Ehm… sì, gemelli siamesi. Nati con una zampa in comune, no?»
«Oh, no. Sono stato io». Isambard sorrise. «Purtroppo Jerry ha perso la zampa proprio come Bullivard ha perso la testa… Così, l’unico rimedio mi è sembrato quello di fargliene condividere una con la sorella. O forse è stata Jilly a perdere la zampa?»
LE ANATRE FUMATRICI
Nemmeno le anatre erano quel che Hazel s’era aspettata.
Tanto per cominciare, le anatre non fumano. Non solo perché fa male alla salute, e perché non hanno i soldi per comperare le sigarette, ma soprattutto perché non sanno fumare: sono anatre, accidenti.
Ma a quanto pareva, queste anatre inalavano allegramente nicotina dai piccoli fori che avevano in cima ai becchi gialli. E pur non disponendo di denaro, in qualche modo s’erano procurate un sacco di sigarette. Erano delle bellissime anatre bianche, fra i trenta e i quaranta esemplari, un terzo dei quali era composto di giovani anatroccoli.
«…Ehm… Isambard, non credo che alle anatre faccia bene fumare».
Isambard sembrò sinceramente sorpreso da quell’affermazione.
«Che altro potrei fare? Queste anatre sono molto stressate. Ho dato loro le sigarette perché si rilassassero».
BULLIVANT
«Isambard… Ma è normale che abbia questo aspetto?»
Isambard sembrò leggermente offeso.
«Cugina, cosa intendi dire? Non penserai che abbia qualcosa che non va? Non hai mai visto un cane con la testa di legno, prima d’ora?».
La cosa inquietante era che, avendo una testa di legno, Bullivant non abbaiava. In genere i cani fanno un sacco di chiasso, adorano i saluti. Ma Bullivant non diceva nulla. A parte la testa, sembrava un normalissimo, sanissimo Labrador nero, con un bel collare rosso, il manto lucido e una lunga coda che si agitava festosa. Ma là dove avrebbero dovuto esserci le orecchie penzolanti e il nasone nero e bagnato, c’era un pezzo di legno. Non che questo fosse del tutto diverso dalla testa di un cane, ma certo non aveva un’aria normale. Le orecchie erano dritte dritte e la bocca non era che una riga disegnata sul muso. Aveva dei cerchi rossi dipinti sulle guance e gli occhi erano stati realizzati sul modello di quelli dei cani nei cartoni animati, troppo grandi, e con lunghe ciglia femminee. Inoltre, sul collo si vedevano chiaramente i chiodi con cui la testa era stata fissata al corpo.
Sicuramente, quello che mi ha inquietato e intenerito di più è stato proprio il cane Bullivant.
E Bullivant era sicuramente davanti al suo canile. Era rimasto di guardia fin dal giorno dell’arrivo di Hazel, proteggendo fedelmente la casa della nobile famiglia Pequierde. Se ne stava lì fuori, notte dopo notte, all’ascolto di intrusi che non poteva udire, a guardia di una casa che non poteva vedere e in attesa di un padrone che non sarebbe mai più tornato.
STILE
Osservando lo stile dell’autore, si ha la sensazione di un lavoro incoerente, poco curato, quasi abbozzato, come se fosse stato buttato giù di getto e poi non più sistemato.
IL NARRATORE
La narrazione è talmente incoerente e inconsistente da dare sui nervi. Non come quella de La nave di Teseo (Recensione: QUI) ma nemmeno questa scherza.
LA FUSIONE CON I PERSONAGGI
Il paesaggio che circondava la casa della zia Eugenia era stupido.
E va bene, non è giusto dire così: probabilmente era ondulato, o piatto, o cosparso di rocce antiche o che so io, ma Hazel era di umore talmente nero che non le andava nemmeno di guardarlo, il paesaggio, per non parlare di doverlo descrivere in modo esauriente.
Dunque, il paesaggio era stupido.
Il fatto di voler rendere l’idea di quanto Hazel sia arrabbiata ci sta, anche se l’autore lo ha ripetuto talmente tante volte che non ce ne sarebbe stato bisogno; ma il problema di questa fusione è che spesso si fa fatica a riconoscere Hazel e il Narratore.
Questo era certo. Non solo era tutto ricoperto da un fitto strato di ragnatele, ma tutti i giochi sembravano essere stati lasciati nel bel mezzo di una partita. Sul tavolo c’erano quattro mani di carte, e pile di fiches accanto alla ruota della roulette, mentre il bersaglio era trafitto da diverse freccette, per non parlare delle palle da biliardo sparse sul tappeto verde. Tutti quegli oggetti erano rimasti fermi abbastanza a lungo perché diverse generazioni di ragni concordassero sul fatto che era un buon posto per stabilirvi la propria residenza e mettere su famiglia. A proposito, era un topo quello che stava sbirciando da dietro il bersaglio delle freccette?
Qui è Hazel o il narratore che parla? E come fa una bambina di dieci anni a sapere cosa sono le fiches?
E da una narrazione così inconsistente e senza regole, si dipanano tutti i soliti problemi:
LE INFORMAZIONI INUTILI
Forse a questo punto dovrei fare una piccola pausa per chiarire una cosa: Hazel non aveva amici. Nemmeno uno. Quel che Noel le aveva appena detto era stata la cosa più gentile e carina che si fosse mai sentita dire. Questo la dice lunga sulla vita sociale di Hazel, ovviamente: che un abominio come un mezzo pitone-mezzo porcospino incontrato da pochi minuti potesse trasformarsi in quanto di più simile a un amico ella avesse mai avuto era quantomeno singolare.
Tralasciando il fatto che non dovresti mai fare una piccola pausa per chiarire qualcosa, ma quello che hai spiegato è anche totalmente inutile: è dalle prime pagine che l’autore ci dice che Hazel non ha nessun amico. Quindi, hai spezzato la lettura inutilmente.
In una narrazione normale in terza persona, non sarebbe successo.
Era facile che in quella casa crescessero i funghi: le vecchie pietre murarie erano umide e la zia Eugenia non apriva mai le tende. Il buio e l’umidità sono proprio quel che piace ai funghi. Se si vuol vivere al buio, diciamo in una grotta o in una cripta, o in un’antica piramide, è importante tenerla asciutta, altrimenti ci crescono i funghi. Potete credermi.
Ma a Eugenia non piaceva spendere in restauri e ammodernamenti, e per essere sinceri non è che avesse più così tanti soldi, soprattutto considerando quanto tempo aveva trascorso seduta in quella poltrona a bere tè negli ultimi cinque anni; e non ci sono tanti lavori, in giro, dove sia richiesto di starsene seduti in poltrona a bere tè. A dire la verità, sono davvero pochi i datori di lavoro disposti ad assumere gente che se ne stia seduta in poltrona a bere tè. Non è conveniente dal punto di vista economico. Persino i produttori di tè, che hanno bisogno di qualcuno che assaggi il loro prodotto, hanno smesso di avere degli assaggiatori stipendiati. Gli basta testarlo sui conigli. Ai conigli piace bere una bella tazza di tè.
Quanto è inutile un paragrafo così? Non bastava dire semplicemente che Zia eugenia non lavorava? Di sicuro non è stata Hazel a concepire questi pensieri.
In una narrazione normale in terza persona, non sarebbe successo.
IL NARRATORE CHE INTERVIENE PER CORREGGERE IL PROTAGONISTA
La sua stanza si trovava al primo piano, nell’ala occidentale della casa, e la sua porta era la terza sulla destra.
La terza. Di tre porte. Solo su di un lato. Per un totale di sei stanze al primo piano nell’ala occidentale. Altrettante ce n’erano nell’ala orientale. E se su ogni piano c’era lo stesso numero di stanze (non era così, ma Hazel non era portata per la topografia), ciò significava che la casa aveva quarantotto stanze. Per non parlare delle torri e dello lo scantinato.
E quindi che senso ha confonderci le idee?
In una narrazione normale in terza persona, non sarebbe successo.
IL NARRATORE CHE DÀ GIUDIZI
Erano tutte sue fotografie, ed erano state scattate in Africa. La stanza doveva essere stata lo studio dedicato ai suoi safari. Hazel sapeva che Podbury aveva frequentato molto la parte orientale dell’Africa, o meglio la parte dell’Africa più popolata da belve feroci. Era qui che doveva aver progettato i suoi viaggi, e l’agenda doveva contenere gli indirizzi di gente conosciuta in Tanzania… Tanzania… dove c’era il monte Kilimangiaro! Dove aveva sposato Eugenia. Poveraccio!
In una narr… beh avete capito.
UNA SEMI-FUSIONE INSTABILE
Se fino a tre quarti di romanzo il narratore era semi-fuso con Hazel, all’improvviso passa a fondersi con Eugenia, rendendoci partecipe delle sue sensazioni.
Voi direte: Beh sì, bello.
Ma a questo punto, che senso aveva il diario?
IL DIARIO
L’autore, per descrivere il punto di vista di Eugenia durante i suoi incubi, le fa scrivere un diario. Questo naturalmente dà il via ad inutili divagazioni.
Ho deciso di continuare a scrivere questo diario perché i miei incubi continuano ad assillarmi. Mi piacerebbe riuscire semplicemente a finire il mio tè, lavarmi i denti e infilarmi a letto… per godermi un normalissimo sonno ininterrotto. Invece mi trovo puntualmente seduta alla scrivania a descrivere il sogno fatto la notte precedente.
Peggio ancora, descrivo il sogno sapendo che fra un’ora circa, quando sarò a letto, quello stesso sogno tornerà a farmi visita… come ogni notte da quasi un anno a questa parte.
Non so dove voglio arrivare, scrivendo questo diario.
Ma nemmeno io, visto che con il vostro narratore fondibile a piacimento sarebbe stato anche più interessante.
LE DESCRIZIONI
La casa della zia Eugenia era chiaramente la dimora di gente stravagante. Vi si accedeva da un ridicolo vialetto coperto di squallidissima ghiaia, lungo il quale si allineavano alberi dall’aspetto spettrale e disgustoso. Sorgeva al centro di una ventina di acri di terreno insignificante, accanto a un fienile color cacca, sullo sfondo di un boschetto che sicuramente puzzava di scoregge e prospiciente un laghetto che sembrava il risultato del vomito di migliaia di persone.L’edificio stesso era stato evidentemente costruito da degli idioti, che si erano serviti delle pietre più brutte che fossero riusciti a trovare. C’erano quattro torrette schifose, tantissime schifose finestre e un portone di legno grande abbastanza da lasciar passare un grosso imbecille.
La semi-fusione del narratore sui personaggi ha il risultato più apprezzabile sulle descrizioni. Riescono a rendere bene l’idea sia del soggetto che delle sensazioni provate in pochi paragrafi.
In particolare, mi è piaciuta la descrizione di Podbury:
Per di più, aveva scoperto di non essere poi così ricca, almeno non come lo era stata all’inizio del matrimonio: Podbury aveva perso molto denaro con le sue scommesse. Non c’erano dubbi su quale fosse stata la sua attività preferita: scommetteva su quale partito avrebbe vinto le elezioni, su quale film avrebbe vinto l’Oscar, persino sul sesso del suo primo figlio. Scommetteva su quale dei suoi amici sarebbe stato il primo a sposarsi, quale invece il primo a finire in galera, o addirittura su chi di loro avrebbe finito per diventare papa. La cosa assurda è che uno dei suoi amici, Antonio, fu veramente eletto papa; ma sfortunatamente proprio quella volta lui aveva puntato su Alice.
Podbury perdeva sempre le sue scommesse. So cosa state pensando. State pensando: “Be’, qualcuna deve averne pur vinta! ”.
Ma vi sbagliate.
Che naturalmente il narratore doveva rovinare con un suo parere:
Perdeva puntualmente qualsiasi scommessa facesse. Una cosa che può capitare, se sei sfortunato, e Podbury era estremamente sfortunato. Per fare un esempio, aveva sposato Eugenia.
LE MALATTIE
Invece, tutto quel che rimaneva dell’antico splendore era una sparuta servitù e la residenza: quell’orribile casa in cui abitava l’orribile zia Eugenia. Le torri si stavano pian piano sgretolando. Il laghetto era sporco. Le tende avevano iniziato a sbrindellarsi. E le finestre avevano contratto un morbo rarissimo, chiamato appunto “finestrite”, che affligge soltanto le finestre più sporche del mondo.
Mi è piaciuto molto anche il modo in cui il narratore inventa delle malattie per esprimere le sensazioni che un oggetto scatena alla vista.
Alle pareti erano appesi antichi ritratti dei Pequierde ormai defunti e il letto era una gigantesca massa informe di legno tarlato e gonfio d’umidità e di coperte di velluto tutte sbiadite e consumate. Aveva l’aria di un letto afflitto da una grave forma di malinconia.
LO SLANG E LA LINGUA INGLESE
Il libro contiene dei giochi di parole che solo gli inglesi e gli americani possono capire a pieno. Alla traduttrice non restava che l’ingrato compito di provare a spiegarceli.
IL NOME HAZEL
«È ridicolo! Il problema con te… con te… come ti chiami? Mandorla o roba del genere? O magari Anacardio1?»
«In realtà, mi chiamo Hazel. Vuoi che rimanga alzata a leggere?»[1]Hazel in inglese significa nocciola (n.d.t.)
MORDIMI
«Non dirmi che devo calmarmi! Sai una cosa? Mordimi!2».
Non era il genere di cosa che si sarebbe aspettata da Isambard. E poi non era una cosa carina da dire in generale.
«Come, scusa?»
«Mordimi2», disse Isambard fra le lacrime.
Hazel si prese la testa fra le mani, sconcertata e molto seccata.
«Che cosa significa, Isambard? Dev’esser qualcosa che hai sentito dire in TV da qualche americano…». Anche se era difficile immaginare Isambard che guardava la TV.
«Lo so. A scuola da me hanno la TV e qualche volta la guardo e la gente che vedo è tutta gente fantastica e quando la gente fantastica vuole dire a qualche stupido di andare via gli dice “Mordimi”, e così ora lo dico anch’io».
Hazel agitò le mani, saltellando nervosamente.
«Ma se non sai nemmeno cosa significa!».
«Lo so benissimo, invece! Ti sfido a mordermi. Ma tu hai troppa paura. Non oseresti mai mordere il mio fantastico collo! Mordimi, se ne hai il coraggio! Ecco cosa significa. AHIII! VIA! VIA DAL MIO COLLO!».
Hazel lasciò andare il collo di Isambard, si asciugò la bocca con il dorso della mano e si sedette a terra, con aria scontrosa. A volte sorprendeva se stessa per la rapidità con cui riusciva a perdere la pazienza.2Bite me (“Mordimi”) in inglese-americano significa anche “Vai via”, “Sparisci” (n.d.t.)
PARLA CON LA MANO
«Non voglio parlare con te! Solo che… solo che…». Ebbe un’idea.
Aprì un armadio e ne estrasse qualcosa che appoggiò sul tavolo. Era una mano mozzata, fissata su un piedistallo come un uccello impagliato. Hazel la guardò raccapricciata.
Isambard l’indicò.
«Ecco qua! Parla con la mano3».
Sembrava compiaciuto.
«Isambard! Non vuol dire questo! Quando la gente dice così, solleva la propria mano! L’hai preso dalla TV americana, vero?»
«Sì, e so esattamente quel che sto dicendo. Non voglio più parlare con te, così dovrai parlare con questa. La mia Mano Parlante».
Hazel si accorse che l’oggetto aveva un’etichetta con su scritto “Mano Parlante”.
Ora si sentiva estremamente frustrata.
«Quando lo fanno, gli americani sollevano una mano e dicono “Parla con la mano, perché la faccia non ti ascolta”. Non serve una mano diversa dalla propria, per farlo».
«Ma così è molto meglio, razza di stupida! Così posso dirti di parlare con la mano e andarmene via».
Detto questo, si precipitò giù per la botola.
3Talk to the hand, letteralmente “Parla con la mano”: frase tratta dallo slang afroamericano degli anni Novanta e inserita come tormentone in una famosa sit-com americana. In italiano equivale a “Parla con il muro” (n.d.t.)
LE ILLUSTRAZIONI
I disegni in bianco e nero mi sono piaciuti. Forse sono troppo pochi, dato che fanno per la maggior parte da decorazione ad inizio di ogni capitolo.
FINALE
Il finale mi ha lasciata un po’ perplessa, forse l’ho trovato troppo affrettato e buonista.
Dunque, tiriamo un po’ le somme.
PRO | CONTRO |
Messaggio molto interessante | La narrazione |
Bullivant | I genitori inutili |
Descrizioni simpatiche | La trama fallace |
Incipit | Il finale buonista |
Frase di apertura dell’epilogo | Il diario inutile |
Malattie | Le forzature |
Personaggi “Cattivi” | Due refusi |
Slang e giochi di parole | |
Gli incubi | |
I disegni |
CONCLUSIONE
Questa è una storia di cattivi, che si lanciano l’un l’altro le proprie cattiverie, fino a che non resta più niente e finiscono per salvarsi a vicenda. L’idea è buona; la realizzazione, forse, un po’ meno. Ma per il messaggio che lascia, non posso che consigliare almeno un tentativo.
Voto: 6/10