Parliamo di… Kobane Calling di Zerocalcare

«Qui stanno facendo una cosa che in questo momento per me è tipo un faro per l’umanità. Che va aiutata, sostenuta. Perché se perdono loro, perdono tutti. Dopodiché questi mica stanno dicendo “Ao venite tutti a vivere qua che abbiamo trovato il paradiso terrestre”. Questi c’hanno un metodo. Una tensione a migliorare, che poi ognuno dovrebbe declinare dentro se stesso e nel suo contesto.»

Trovo sconcertante il numero delle volte in cui Zerocalcare riesce a sorprendermi. Quando pensi di aver visto ogni sua sfaccettatura, ecco che tira fuori qualcosa di nuovo. Riesce sempre a scorrere, a migliorare, a reinventarsi. Ho letto tutte le sue pubblicazioni, quindi pensavo di sapere più o meno cosa aspettarmi, e invece no. Fregata di nuovo. Anche con “Dimentica il mio nome” è andata così.
Sapevo che non sarebbe stata una lettura facile, ma forse non immaginavo fino a che punto. Visto che ho avuto un nodo alla gola per tutto il tempo.

Alcune di loro moriranno, senza chiedere nulla a nessuno, mai.
«È così che viviamo. È così che moriamo, anche. Ma almeno siamo libere.»

Zerocalcare ci presenta un lato della guerra che pochi conoscono, perché non fa scalpore quanto le cose che ci mostrano ogni giorno i mass-media. Eppure, al tempo stesso, non si prende troppo su serio, sa di non essere un giornalista e lo dice chiaramente, con una sincerità che fa venire i brividi, che raggiunge noi lettori, perché anche noi al suo posto ci saremmo sentiti piccolissimi, davanti a quello che ha visto.

«Ma no, dai, Nasrin! Tu ci devi stare!»
«Perché, pensi che faccio foto brutte? Guarda che sono capace eh… Io ero giornalista. Mi piaceva fare foto, era mio lavoro. Ora nostra vita è guerra. Almeno oggi pomeriggio posso fare ancora mio lavoro.»

Definire lo stile di Zerocalcare “dolceamaro” è riduttivo, specialmente nelle ultime pubblicazioni l’intervallo ridere-piangere si è ridotto tantissimo, le scene comiche sono esilaranti e, molto spesso, le scene tristi si rivelano dei veri e propri pugni nello stomaco.
È un libro che apre gli occhi, che ti fa sentire inadatto, incapace di capire a pieno, ma è un libro che secondo me tutti dovrebbero leggere. Fosse per me, lo farei leggere anche nelle scuole. Perché lo stile di Zerocalcare abbraccia un raggio molto ampio di lettori, in particolare tra i giovani. I suoi disegni sono immediati e il linguaggio è intuitivo, anche per chi non è di Roma.

“A me risulta difficile concepire un’appartenenza diversa dal mio quartiere. Forse però ci sono cose che trascendono la geografia e parlano ad altre corde, che manco sappiamo di avere. O forse mi sto solo suggestionando, come quando da regazzino ero andato in fissa con l’isola che non c’è.”

L’autore di solito fa spesso piccoli riferimenti alle sue pubblicazioni precedenti, che non precludono la comprensione ma danno degli elementi in più. In Kobane Calling questi riferimenti sono molto ridotti, forse giusto qualcuno a “La profezia dell’armadillo”, quindi è una buona opzione anche per chi non ha mai letto niente di suo e vuole iniziare adesso.
Lo consiglio a tutti. Leggetelo e prendetevi questi pugni nello stomaco, perché sono dolori che ogni tanto fanno bene.

“Oggi Kobane è un museo a cielo aperto della vergogna dell’umanità. Di cosa è stato lasciato accadere. Non vogliamo ripulire tutto solo perché il mondo possa tornare a far finta di niente.”

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