Parliamo di… “Wild” di Cheryl Strayed

“«Molto bello» disse Rick dopo un po’. «Molto bello» ripeté, con più enfasi.
«Cosa?» chiesi girandomi verso di lui, anche se lo sapevo.
«Tutto quanto» rispose.
Ed era vero.”

Titolo: Wild

Autore: Cheryl Strayed

Editore: Piemme

Pagine: 405 

Formati disponibili: ebook, brossura e copertina rigida

Anno pubblicazione in Italia: 2012

 

 

“Stavo piangendo per tutto quanto, per la palude malsana in cui avevo trasformato la mia vita da quando mia madre era morta; per l’esistenza stupida che conducevo. Non volevo essere così, vivere in quel modo, fallire così miseramente.”

Questo libro mi ha seguita nel corso degli anni, facendosi notare con vari segni come solo un libro che prima o poi dobbiamo leggere sa fare. A convincermi del tutto è stato il revival di Gilmore Girls.

“Avevo la sensazione di guardare le cose dal fondo di un pozzo. Da quel pozzo iniziai a trasformarmi in una camminatrice solitaria.”

TRAMA

Il mio dubbio più grande era l’argomento: mi chiedevo come fosse possibile rendere interessanti 400 e più pagine di un libro dove si cammina da soli, in mezzo alla natura, per tutto il tempo.

“Ero sola. A piedi nudi. Avevo ventisei anni ed ero orfana. “Una vera vagabonda” aveva osservato uno sconosciuto un paio di settimane prima, quando gli avevo detto come mi chiamavo e spiegato quanto fossero deboli i miei legami nel mondo.”

L’autrice mi ha piacevolmente sorpreso, alternando bene momenti di riflessione, descrizioni paesaggistiche e imprevisti. E fidatevi, a questa tipa capita davvero di tutto e non avrei mai pensato di immergermi così tanto.

“C’era la luna e c’era il fatto che dormivo all’aperto sulla cerata.
C’era il fatto che mi ero svegliata perché mi sembrava che minuscole mani fresche mi toccassero con delicatezza, e c’era il fatto che minuscole mani fresche mi stavano davvero toccando con delicatezza.
E poi c’era il fatto più importante di tutti, un fatto più monumentale persino della luna: il fatto che quelle minuscole mani non erano mani, ma centinaia di piccole rane nere.
Piccole rane nere e viscide che mi saltellavano su tutto il corpo.”

 

Tutto ciò che provava lo ha trasmesso: l’angoscia per i pochi soldi, il dolore ai piedi per gli scarponi troppo piccoli, l’ansia per l’acqua, la paura del vento di notte e, soprattutto, il dolore, quello vivo, che ti trascina a terra e si espande ad ogni aspetto della tua vita.

“Ero incuriosita. Ero senza legami. Ero giovane e straziata dal dolore, pronta per l’autodistruzione.”

LA MORTE

L’autrice e protagonista perde la madre a 22 anni, e la sua vita da quel momento inizia a sgretolarsi, perché tutti i problemi, i dolori sepolti ed evitati fino a quel momento, vengono alla luce.

“Pensavo a mia madre, a come negli ultimi giorni della sua vita fossero accadute così tante cose orribili. Piccole, orribili cose. I suoi bizzarri balbettamenti deliranti. Il sangue che ristagnava annerendo la parte posteriore delle sue braccia di donna costretta a letto. Il modo in cui implorava qualcosa che non era neppure pietà. Quelli erano stati i giorni peggiori, avevo pensato all’epoca, eppure quando era morta avrei dato qualunque cosa per riaverli indietro. Un piccolo, orribile, glorioso giorno dopo l’altro. Forse sarebbe stato così anche con Paul, pensai, seduta accanto a lui la sera che decidemmo di divorziare. Forse una volta finita, avrei rivoluto indietro anche questi giorni orribili.”

Ho perso mia madre quando ne avevo 14 di anni, era un’età diversa, eppure non ho potuto fare a meno di rivedermi in lei.

“E poi gemetti. Non ci furono lacrime, solo una serie di singulti rauchi che mi scossero con tale violenza da impedirmi di reggermi in piedi. Fui costretta a piegarmi, lamentandomi, abbracciandomi le ginocchia con le mani, lo zaino che mi schiacciava, il bastoncino da sci che batteva rumorosamente sul terreno dietro di me, tutta la mia stupida esistenza che mi risaliva in gola. Era sbagliato. Era così irrimediabilmente spaventoso che mia madre mi fosse stata portata via. Non potevo nemmeno odiarla come si deve. Non ero cresciuta e non mi ero allontanata da lei recriminando con le mie amiche e accusandola delle cose che avrei voluto fossero diverse, per poi crescere ancora e capire che aveva fatto del suo meglio e rendermi conto che quello che aveva fatto era stato meraviglioso, e infine riaccoglierla tra le mie braccia. La sua morte aveva distrutto tutto ciò. Aveva distrutto me. Mi aveva dato il colpo di grazia nel bel mezzo della mia arroganza giovanile. Mi aveva costretta a crescere di botto e a perdonare tutte le sue colpe materne, e al tempo stesso mi aveva condannata a rimanere un’eterna bambina, con la mia vita che finiva e iniziava in quell’istante prematuro in cui la nostra relazione si era interrotta. Lei era mia madre, ma io ero orfana di madre. Ero invischiata con lei e assolutamente sola.”

Anche il disagio delle altre persone davanti ai problemi e al dolore è stato reso molto bene:

“«Ne stavamo parlando. Forte che fai trekking da sola» disse una delle due dopo aver finito di caricare la spesa.
«Che cosa ne pensano i tuoi genitori?» chiese l’altra.
«Niente. Voglio dire… non ce li ho, i genitori. Mia mamma è morta e non ho un padre… o meglio, tecnicamente ce l’ho, ma non fa parte della mia vita.» Salii sul pullmino e ficcai Il romanzo dentro Mostro per non dover vedere l’espressione di disagio sulle loro facce spensierate.
«Wow» disse una delle due.
«Già» disse l’altra.
«Il lato positivo è che sono libera. Posso fare quello che voglio.»
«Già» disse quella che aveva detto “wow”.
«Wow» disse quella che aveva detto “già”.”

PAUL

“Sedetti al posto del passeggero mentre attraversavamo il paese, con la sensazione che la mia vita reale fosse presente ma inaccessibile. Paul e io litigammo, piangemmo e scuotemmo l’auto con la nostra rabbia. Fummo mostruosamente crudeli e poi ci parlammo con gentilezza, scioccati l’uno dall’altro e da noi stessi. Decidemmo che avremmo divorziato e poi che non l’avremmo fatto. Lo odiai e lo amai. Insieme a lui mi sentivo in trappola, marchiata, sostenuta, e amata. Come una figlia.”

Devastata dal dolore, Cheryl fa una serie di scelte che portano alla fine del suo matrimonio con Paul, e ho adorato le scene in cui sono insieme: umane e per nulla scontate, incoerenti e confuse. Spesso non riusciamo a definire o dare motivazioni per ogni cosa che proviamo o facciamo, e ho molto apprezzato che l’autrice non ci provasse nemmeno a farlo.

“Per quanto fossimo stati vicini quando stavamo insieme, fummo ancora più vicini nel nostro rimuginare, raccontandoci tutto, parole che ci sembrava non fossero mai state scambiate prima tra due esseri umani, scavando sempre più a fondo, dicendo cose bellissime, tremende e vere.”

L’EROINA

“Era bello. Era come qualcosa di straordinario e fuori del mondo. Come se avessi trovato un pianeta reale di cui avevo ignorato l’esistenza fino a quel momento. Il pianeta Eroina. Il luogo dove non c’era dolore, dove era una sfortuna ma in sostanza era okay che mia madre fosse morta e il mio padre biologico fosse sparito dalla mia vita e la mia famiglia si fosse disintegrata e io non ce la facessi a rimanere sposata con l’uomo che amavo.”

L’autrice non si risparmia nel raccontare ogni tentativo fatto per tentare di riempire il vuoto lasciato da sua madre, e tra questi c’è anche la fase della droga.

“Almeno era così che mi sentivo quando ero sballata. […] Di mattina, il dolore era moltiplicato per mille. Di mattina non c’erano solo quelle cose tristi della mia vita, adesso si aggiungeva anche il fatto che mi sentivo di merda. […] In bagno, mi lavavo la faccia e singhiozzavo con la testa fra le mani con brevi ansiti affrettati, preparandomi per il lavoro di cameriera in un locale dove servivano la colazione. Pensavo: Questa non sono io. Questo non è da me. Smettila. Basta.”

IL PCT

“Forse l’impulso a comprare la guida del Pacific Crest Trail mesi prima era stato un primissimo tentativo di riannodare i fili spezzati della mia esistenza.”

Ovviamente questo non è un libro solo di dolore, ma anche di rinascita, espiazione e perdono.

“Stavo meglio di quanto non fossi mai stata in vita mia, adesso che il trekking mi aveva insegnato quanto potessi sentirmi da schifo.”

L’autrice racconta nel dettaglio tutta la sua avventura nel percorrere le centinaia di chilometri sul sentiero, tuttavia non lo dipinge come qualcosa che dovrebbero far tutti, anzi, racconta spesso di quanto fosse stato difficile e pericoloso.

“Quando raggiunsi l’estremità della frana, ero così sollevata che non mi importava che il ginocchio pulsasse e sanguinasse. “L’ho superata” pensai con gratitudine, ma mi sbagliavo.
Quel pomeriggio dovetti attraversare altre tre frane.”

L’intero suo viaggio si può interpretare in un viaggio nel limbo metaforico, con dolore, prove da superare che sembrano non finire mai, continue ricerche di soluzioni, fatica e dolore fisico che fungono da purificatori e la lotta continua con la paura.

“La paura, in gran parte, è figlia di ciò che ci raccontiamo, e quindi io avevo scelto di raccontarmi una storia diversa da quella che narrano alle donne. Decisi che sarei stata al sicuro. Ero forte. Ero coraggiosa. Nulla poteva sconfiggermi. Ripetermi questa storia era una specie di controllo della mente, ma funzionava abbastanza bene. […] La paura genera paura. La forza genera forza. Io volevo generare forza. E non passò molto tempo prima che smettessi sul serio di avere paura.”

 

C’è anche tutto un discorso interessante riguardo l’essenziale, cioè quanto basti poco in realtà ad una persona per sopravvivere:

“Ero stupita che il necessario per la mia sopravvivenza potesse starmi sulle spalle. E, cosa più sorprendente di tutte, che io fossi in grado di trasportarlo. Che fossi in grado di reggere l’insopportabile. Simile consapevolezza riguardo la mia sopravvivenza fisica si rifletteva con naturalezza nel regno emotivo e spirituale. Che la mia esistenza tanto complicata potesse farsi così semplice era stupefacente. Avevo iniziato a pensare che forse era stata una fortuna che non avessi trascorso le giornate sul sentiero ruminando le mie sofferenze, che forse la circostanza di essere stata costretta a concentrarmi sulla sofferenza fisica aveva in qualche modo alleviato il dolore emotivo. Alla fine di quella seconda settimana, mi resi conto che dall’inizio del trekking non avevo versato neppure una lacrima.”

E alla fine, la parte del perdono:

“E se avessi perdonato me stessa? pensai. Supponiamo che perdoni me stessa anche se ho fatto cose che non avrei dovuto fare. Mettiamo che sia stata una bugiarda e un’adultera e non ci siano scusanti per quello che ho fatto, tranne che era ciò che volevo e dovevo fare. Poniamo che sia dispiaciuta, ma che se potessi tornare indietro mi comporterei esattamente nello stesso modo. E se avessi davvero voluto scoparmi tutti quegli uomini? E se l’eroina mi avesse insegnato qualcosa? Mettiamo che la risposta giusta sia “sì” invece di “no”. E se quello che mi aveva spinta a fare tutte le cose che la gente supponeva non avrei dovuto fare fosse anche ciò che mi aveva portata qui? E se non mi fossi mai redenta? E se lo fossi già?”

STILETTATE

“Ma nessuno rise. Nessuno avrebbe riso. L’universo, l’avevo imparato, non scherza. Si prendeva quello che voleva e non te lo restituiva mai.”

La narrazione ha sempre un velo di durezza, che raggiunge il picco in alcune frasi che fanno davvero un male inaspettato e portano a riflettere. Da queste frasi ho capito che Wild, era un libro che dovevo leggere.

“Arrivavo al punto di chiederglielo apertamente: «Sono la figlia migliore del mondo?».
Lei rispondeva di sì, lo ero, certo.
Ma non bastava. Volevo che quelle parole fossero tessute nella mente di mia madre e poi consegnate, nuove, a me.
Ero avida d’amore.”

“«Non ci furono più scene violente» dissi. «Voglio dire, immagini che cosa sarebbe stata la mia vita se fossi cresciuta con mio padre.»
«Immagini la sua vita se avesse avuto un padre che la amava come dovrebbe fare un padre» ribatté Vince.”

“«Il sangue non è acqua» diceva sempre mia madre quando ero piccola, un’opinione che avevo spesso contestato. Ma poi era saltato fuori che non importava se lei avesse ragione o torto. Sia il sangue sia l’acqua mi erano scivolati tra le dita.”

“«È questo che succede quando i padri non curano le proprie ferite. Feriscono i figli nello stesso modo.»”

IL PATRIGNO

Cheryl durante il suo viaggio ha il tempo di soffermarsi su ogni aspetto e persona della sua vita, e la parte che più mi ha commosso è quella riguardo il patrigno.

“Quando Eddie era arrivato, mia mamma stava ancora cucinando, così lui aveva giocato con me, Karen e Leif nel piccolo giardinetto di fronte al palazzo. Ci aveva inseguiti, afferrati e messi a testa in giù, scuotendoci per vedere se dalle nostre tasche cadeva qualche moneta; in quel caso, le raccoglieva dall’erba e si metteva a correre, e noi gli correvamo dietro, urlando di quella gioia particolare che ci era stata negata perché non eravamo mai stati amati nel modo giusto da un uomo. Ci fece il solletico e ci guardò mentre ballavamo e facevamo la ruota. Ci insegnò strane canzoncine e balli complicati. Ci rubò il naso e le orecchie, poi ce li mostrò tenendo il pollice infilato tra le dita e alla fine ce li restituì mentre noi ridevamo. Quando mia madre ci chiamò per cenare, ero così infatuata di lui da aver perso l’appetito. […] Aveva un canarino sulla testa e, miracolo, il canarino rimase lì per tutta la cena, e anche dopo cena, addirittura addormentandosi: l’aveva scelto per nido.
Lo stesso fece Eddie con noi.
[…]
Non c’era modo di sapere che cosa faceva accadere una cosa piuttosto che un’altra. Che cosa portava a cosa. Che cosa distruggeva cosa. Che cosa faceva sì che una cosa fiorisse o morisse o prendesse un’altra direzione. Ma quella sera fui sicurissima che se non fosse stato per Eddie non avrei trovato me stessa sul PCT. E nonostante fosse vero che tutto quello che provavo per lui era come un macigno nello stomaco, quella consapevolezza alleggerì notevolmente il peso del macigno. Alla fine non mi aveva amata nel modo giusto, ma l’aveva fatto quando serviva.”

CONCLUSIONE

Un romanzo da leggere se si ha voglia di una storia realmente vissuta, se si sta passando un brutto periodo o si ha bisogno di riflettere. E anche se si vuole piangere un po’.

“«Vi amo tanto così?» ci chiedeva, allargando le mani di quindici centimetri. «No» dicevamo, con dei sorrisi birichini. «Vi amo tanto così?» chiedeva di nuovo, e poi ancora, ogni volta allontanando un po’ di più le mani. Ma non ci sarebbe mai arrivata, per quanto allargasse le braccia. La quantità di amore per noi andava oltre la sua portata. Non poteva essere quantificata né limitata. Era le diecimila cose dell’universo del Tao Te Ching e diecimila volte di più. Il suo amore era a gola spiegata e onnicomprensivo e disadorno. Tutti i giorni dava fondo alle sue riserve.”

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