La morte dopo lunga malattia possiamo accettarla con rassegnazione. Anche la morte accidentale si può attribuire al destino. Ma che un uomo muoia senza causa apparente, che muoia solamente perché è uomo, ci spinge così vicino all’invisibile confine tra la vita e la morte da farci domandare su che lato di esso ci troviamo. La vita si fa morte, ed è come se quella morte avesse posseduto questa vita da sempre.
Questo libro si divide in due parti. Nella prima Auster racconta della morte recente e improvvisa del padre e inizia un viaggio introspettivo da cui emergeranno riflessioni, percezioni e nuovi modi di vedere lui come padre e se stesso nel ruolo di figlio. Come si fa a raccontare una persona importante ma che per tutta la vita è stata sempre nello sfondo? Una persona che non ha mai voluto andare oltre la superficie?
È naturale che un uomo che sopporta la vita solo a patto di restarle in superficie si accontenti di non offrire agli altri più che la superficie stessa. Ci sono poche esigenze da soddisfare, non ci si pone in gioco.
Auster affronta il distacco emotivo del padre come ci si aspetterebbe da una persona che ci ha riflettuto sopra per anni. Non con rancore ma come se fosse un enigma.
Finché tenevo davanti agli occhi quelle foto, finché continuavo a studiarle con ferrea concentrazione, lui sarebbe rimasto vivo anche nella morte. O, se non vivo, comunque non morto: sospeso, almeno, per così dire; chiuso in un universo che non aveva nulla a che vedere con la morte, dove la morte non sarebbe entrata mai.
Quello che io ho percepito è che volesse conservare la sua memoria non tanto per affetto e mancanza, ma perché sapeva che quella avrebbe potuto essere l’ultima occasione per capire un po’ di più il padre prima che tutto ciò che era rimasto di lui si disperdesse, e al tempo stesso sembrava che sapesse di non poterci riuscire, perché la sua morte si era portata via l’ultimo tassello, che immagino fosse qualcosa di simile ad un confronto diretto. Le sue parole sembrano scritte di getto ma secondo me sono le riflessioni inespresse di una vita, che prendono forma nel punto massimo dell’assenza.
Comprendo che è impossibile entrare nella solitudine altrui. Seppure possiamo arrivare a conoscere molto parzialmente un altro essere umano, questo vale solo entro i limiti da lui stesso imposti. Un uomo dice: ho freddo. Oppure non dice niente, ma lo vediamo rabbrividire. In entrambi i casi, appuriamo che ha freddo. Ma quando un uomo non dice niente e non rabbrividisce? Dove tutto e refrattario, dove tutto è arcigno ed evasivo, non si può far altro che osservare. Quanto poi si riesca a dedurre dall’osservazione, è tutt’altro discorso.
Alcune riflessioni sono molto interessanti, spesso il nostro ruolo di figli ci spinge a considerarci colpevoli dell’insoddisfazione dei nostri genitori e di tutte le mancanze del passato e del presente; Paul Auster va oltre questo pensiero e trova risposte scavando e dando nuove chiavi di lettura di una persona.
Il dato importante è questo: io compresi che anche se avessi realizzato tutte le mie aspirazioni, la sua reazione sarebbe stata uguale. In definitiva non gli importava che riuscissi o fallissi. Il concetto che aveva di me non dipendeva da quello che facevo, ma da ciò che ero, e questo voleva dire che mi avrebbe percepito sempre allo stesso modo. Eravamo cristallizzati in un rapporto immutabile, divisi da una muraglia. Di più: mi resi conto che in tutto questo io non c’entravo nulla; la partita si svolgeva interamente dentro di lui. Come tutte le altre cose che facevano parte della sua vita, mi vedeva solo attraverso le nebbie della sua solitudine, a distanza di svariati diaframmi. Credo che il mondo per lui fosse un luogo remoto, un luogo dove non poté mai entrare veramente, e laggiú, lontano, fra tutte le altre ombre che gli erano sfilate davanti, ero nato io, ed ero diventato suo figlio, e cresciuto, quasi non fossi a mia volta che un’ombra, apparendo e sparendo in una regione mal illuminata della sua coscienza.
L’unica cosa che non apprezzato sono alcune frasi per cercare di descrivere il padre poco coincise, che fungono quasi più da riempimento che non da vera funzione chiarificatrice, molto nello stile “Se non era zuppa era pan bagnato, e se non era pan bagnato probabilmente era zuppa.” Ne riporto un paio ma il libro ne è pieno:
Più che un uomo che occupa uno spazio, sembrava un blocco di spazio impenetrabile in forma di uomo.
Allora A. rifletté che, se è vero che il mondo si imprime nella nostra mente, è anche vero che le nostre esperienze si imprimono nel mondo.
La seconda parte è una via di mezzo tra il flusso di coscienza e una raccolta di appunti. È estremamente dispersiva e confusionaria e capisco che sia stato fatto di proposito, probabilmente a sottolineare da differenza tra il lato razionale e quello emotivo dell’autore.
Ciò che A. sente mentre scrive le pagine del suo libro, invece, non appartiene a nessuno di questi due tipi di memoria. La memoria di A. è insieme buona e cattiva. Ha perso molto, ma anche trattenuto molto. Mentre scrive, sente che sta procedendo verso l’interno (di se stesso), e nel contempo uscendo (verso il mondo).
Si capisce benissimo che il tutto sia stato fatto per rendere bene l’idea di un vortice emotivo in cui ogni cosa scritta non deve essere dimenticata, al tempo stesso però l’autore toglie i nomi lasciando solo le iniziali, creando una spersonalizzazione che sicuramente stuzzica gli esteti ma nella pratica crea molta confusione. Il lettore si trova davanti ad un collage di ricordi, aneddoti, citazioni, stralci di libri ma senza un reale scopo a parte il filo conduttore del “ricordare”.
Eppure, raccontarlo è poi necessariamente un lento, delicato sforzo di ricordare quanto è stato già ricordato. La penna non riuscirà mai a procedere così velocemente da registrare tutte le parole scoperte nello spazio della memoria. Alcune cose sono andate perdute per sempre, altre forse verranno rammentate in seguito, e altre ancora si sono perse, ritrovate e riperse. Non c’è modo di sapere per certo nulla di tutto questo.
A me Paul Auster piace davvero tanto, ma finora ho notato due stili diversi che si alternano nei suoi romanzi: uno più aggrappato alla realtà, dove si tenta di leggere il mondo attraverso coincidenze e viaggi introspettivi (tra quelli che ho letto: “Diario d’inverno”, “La musica del caso”, “Esperimento di verità” e “Nel Paese delle ultime cose”) e uno più rarefatto, dove la confusione e i flussi di coscienza prendono il sopravvento per dare un risultato a livello estetico e tecnico molto sofisticato, ma che a me personalmente nella pratica prende poco (come ad esempio “Città di vetro”). Per questo motivo ho apprezzato tantissimo la prima parte e ho fatto fatica a concludere la seconda.
In quel momento l’equazione gli fu chiara: l’atto della scrittura è un atto di memoria. Perché il punto essenziale è questo: a parte i testi, di quelle poesie non aveva scordato nulla.
Se la voce di una donna che racconta delle storie ha il potere di far nascere dei figli, è anche vero che un figlio ha il potere di dar vita ai racconti.
Per ripetere le parole di Proust, il passato è nascosto in alcuni oggetti concreti.
È stato. Non sarà mai più. Ricorda.