Parliamo di… “Il giocatore” di Fyodor Dostoyevsky

“Proprio come se mi fossero ormai così cari quel sogno spaventoso e tutte le impressioni che esso ha lasciato dentro di me, che ho perfino paura di sfiorarlo con qualcosa di nuovo per timore che esso si dissolva in fumo. Ma dunque mi è davvero tanto caro tutto questo? Certo che mi è caro, e forse me ne ricorderò ancora tra quarant’anni…”

Dostoevskij ha un modo di scrivere così avvolgente, da farti interessare alla vicenda anche quando l’argomento non ti ha mai appassionato minimamente.
Sembra sempre di trovarsi a teatro, con personaggi che interpretano loro stessi portati all’estremo.
In particolare ho apprezzato il personaggio della nonna; rigida, decisa, senza peli sulla lingua. È al suo arrivo, che la storia prende davvero una piega interessante.
Finale un po’ buttato lì, che lascia trasparire bene il fatto che questo romanzo sia stato scritto di fretta, per rispettare una scadenza.

Già, qualche volta l’idea più folle, l’idea apparentemente più assurda ti si fissa e radica in testa così profondamente che alla fine involontariamente l’accetti come qualcosa di effettivamente realizzabile… Non solo, ma se questa idea si fonde con un qualche desiderio forte e appassionato, puoi addirittura finire per accettarla come qualcosa di fatale, di necessario e predestinato, come qualcosa insomma che non può fare a meno di accadere realmente! Può darsi che ci sia di mezzo ancora qualcos’altro, una certa combinazione di presentimenti, uno sforzo straordinario della volontà, una specie d’intossicazione prodotta dalla nostra stessa fantasia, o ancora qualcos’altro che non saprei dire. Ma quella sera (una sera che io non dimenticherò mai più per tutta la mia vita) mi accadeva davvero qualcosa di prodigioso; qualcosa che, sebbene sia perfettamente spiegabile in base all’aritmetica, cionondimeno mi appare prodigioso ancora oggi.

E adesso di nuovo mi ponevo la domanda: l’amavo o non l’amavo? E di nuovo mi sentivo incapace di rispondervi o, per meglio dire, per la centesima volta di nuovo mi rispondevo che l’odiavo. Sì, mi era odiosa. C’erano degl’istanti (specialmente alla conclusione di tutte le nostre conversazioni) che avrei dato la metà della mia vita per poterla strangolare! Giuro che se mi fosse stata data la possibilità di affondare lentamente un coltello affilato nel suo petto, ebbene io l’avrei fatto con vero godimento. Eppure allo stesso tempo – lo giuro per tutto ciò che c’è di più sacro – se sullo Schlangenberg, su quella vetta alla moda, lei mi avesse davvero detto: «si butti di sotto», ebbene io mi sarei immediatamente buttato, e perfino con piacere. Questo lo sapevo.

Me ne sto qui, in questa malinconica cittadina […] e invece di riflettere al passo che sto per compiere, vivo ancora sotto l’influenza delle trascorse impressioni, sotto l’influenza di ricordi ancora freschi e di tutto quel recente turbine che allora mi ha afferrato e mi ha fatto girare vorticosamente per poi ributtarmi a riva. A tratti mi sembra di stare ancora girando in quel vortice e mi sembra che da un momento all’altro si scatenerà di nuovo la tempesta e passandomi accanto mi afferrerà con la sua ala, facendomi perdere di nuovo ogni senso della misura e dell’ordine e io ricomincerò a mulinare, mulinare, mulinare…

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